Occhio al cervello – quinta puntata

Occhio al cervello - Quinta parte

Come conciliare schermi e sviluppo cognitivo

Negli ultimi 10-15 anni, a 30 anni dal momento in cui le tecnologie digitali si sono diffuse in modo significativo tra infanzia, fanciullezza e adolescenza, numerosi studi scientifici hanno iniziato a studiare gli eventuali effetti del tempo passato sul web attraverso una connessione e della interferenza dei social media nello sviluppo.

A marzo 2024 sulla rivista “The Atlantic” è comparso un reportage dal titolo “End the phone based childhood now” (per intero lo potete leggere qui), dove viene esplorato l’impatto negativo della tecnologia, in particolare degli smartphone e dei social media, sulla salute mentale e sullo sviluppo dei giovani, in particolare della Generazione Z. Ovvero coloro nati nel periodo che va dal 1995/1997 e il 2008/2010, che oggi hanno tra i 15 e i 30 anni e che (a seconda del paesi di origine e della quantità di elettronica e di connessione che le loro famiglie hanno messo a disposizione) sono una prima fascia di popolazione che è stata intensamente esposta al web e ai social media. Tramite l’analisi di una trentina di studi scientifici si evidenzia quanto l’uso intensivo di dispositivi digitali abbia portato a un calo delle capacità cognitive di base, alla riduzione della capacità di attenzione e di focalizzazione su un singolo argomento e all’aumento significativo di aggressività (hate-speech) e di depressione, ansia e solitudine tra gli adolescenti.

In quattro nazioni anglofone ricche e tecnologicamente avanzate (USA, Canada, Regno Unito e Australia), dove la penetrazione degli smartphone supera l’85%, i tassi di depressione e ansia sono aumentati di oltre il 50% dal 2010 al 2019, con un incremento del 48% nei tassi di suicidio tra gli adolescenti di età compresa tra 10 e 19 anni. Tendenze simili sono state osservate anche in altri paesi come I membri della Generazione Z stanno affrontando livelli di ansia, depressione e autolesionismo più elevati rispetto alle generazioni precedenti. I risultati accademici sono diminuiti. Le valutazioni in comprensione di un testo e in matematica hanno mostrato un calo, invertendo decenni di progressi.

Diverse ricerche scientifiche attribuiscono gran parte di questi cambiamenti all’adozione degli smartphone fin dai primi anni di età e all’accesso ai social media dai 6-7 anni. La transizione dalle vecchie tecnologie ai dispositivi moderni ha alterato le esperienze quotidiane e i percorsi di sviluppo dei giovani. Viene sottolineato che la vita dei giovani è stata rapidamente trasformata in una forma più sedentaria e virtuale, compromettendo le interazioni sociali necessarie per uno sviluppo ricco di stimoli e in contatto con il mondo reale. I bambini hanno perso opportunità di gioco e di esplorazione indipendente, essenziali per lo sviluppo delle competenze sociali ed emotive e la mancanza di esperienze di rischio e la supervisione eccessiva degli adulti hanno portato a una generazione più ansiosa e meno avventurosa e ambiziosa.

QUANDO MANCA ESSERE “FACCIA A FACCIA”

Sempre riassumendo dal reportage di “The Atlantic” si può notare come la prima ondata di internet negli anni ’90 non ha avuto effetti negativi significativi sui Millennials, ma la seconda ondata, iniziata con l’arrivo degli smartphone e dei social media, ha avuto un impatto preoccupante sulla Generazione Z. A partire dal 2010, i giovani hanno cominciato a passare sempre più tempo online, portando a un cambiamento radicale nel modo in cui interagiscono e socializzano. Il tempo medio trascorso dai giovani sui social media è di circa cinque ore al giorno (dati pressoché analoghi li possiamo riscontrare oggi nei Paesi dell’Unione Europea), con un totale di sette a nove ore includendo altre attività digitali. Questo tempo non include le ore dedicate allo studio o ai compiti, portando a una diminuzione della qualità del sonno e dell’attività fisica.

La vita online ha portato a interazioni sociali frammentate e superficiali, con un declino delle relazioni faccia a faccia. Gli adolescenti trascorrono meno tempo con gli amici, riducendo le loro abilità sociali e aumentando, specie in adolescenza, la timidezza e la paura di incontrare persone nuove dal vivo, mentre nessuno si preoccupa di chi incontra on line. Nei social network più diffusi tra gli adolescenti almeno il 20% dei profili sono dei fake e quasi tutti gli adolescenti hanno dichiarato di avere essi stessi più di un profilo: quello “ufficiale” e altri in incognito per “osservare” senza esser riconosciuti o per assumere una seconda identità.

Tra le proposte operative per affrontare questi problemi praticamente tutti gli studi scientifici concordano che è necessario limitare fortemente l’uso degli smartphone prima della scuola superiore e promuovere più indipendenza e gioco libero nel mondo reale. È essenziale per le comunità e le famiglie lavorare insieme per affrontare questi problemi e ripristinare un’infanzia più sana ed equilibrata, lontana dall’eccessivo uso della tecnologia.

A questo punto vale anche aggiungere un paio di considerazioni che Richard E. Cytowic offre nel suo libro “Un cervello dell’Età della pietra nell’Era degli schermi” sul controverso fenomeno del multitasking. Da un lato si potrebbe pensare (e alcuni studi lo confermano) che l’uso dei social ci renda più abili nel gestire più compiti contemporaneamente, lo stesso effetto prodotto da alcuni videogiochi o osservando i piloti di jet che si allenano con i simulatori di volo. Altri studi invece dimostrano che chi trascorre molto tempo sui social diviene meno abile nel passare da un compito all’altro, più facilmente distraibile e meno efficiente nell’immagazzinare le informazioni nella memoria. I nostri nonni sapevano meno cose di quelle che io conosco o che posso raggiungere con un paio di click, ma le avevano studiate in modo molto approfondito e “verticale”. A parità di tempo dedicato allo studio, alla conoscenza, all’informazione (ma anche all’arte, alla musica, al cinema…) il web ci permette di padroneggiare molti più argomenti, ma il rischio in agguato è che si crei una conoscenza “superficiale”. Sia perché la velocità non permette al cervello di sedimentare, sia perché la possibilità di abbracciare tanto sapere in poche ore ci rende bulimici. La paralisi che a volte coglie chi è troppo informato (infodemia) è un altro aspetto di questa dinamica. Avere più informazioni può togliere la capacità analitica.

Altro rischio connesso a un uso intenso dello smartphone è il rilascio di dopamina. Studi in risonanza magnetica funzionale hanno dimostrato che i centri della ricompensa nel cervello sono più attivi quando, in una conversazione, stiamo parlando di noi, piuttosto che quando ci è chiesto di ascoltare. Ma se nelle chiacchierate faccia a faccia parliamo di noi stessi nel 30-40% delle volte, su sui social è autocentrato l’80% dei post. Quando scriviamo di noi nel nostro cervello si libera dopamina, un neurotrasmettitore associato alle sensazioni di benessere: è come se il cervello in qualche modo ricompensasse il nostro voler essere sempre al centro dell’attenzione. E quando succede il contrario (un nostro post o una nostra story o reel o video) non riceve i like e i commenti che ci aspettiamo ci sentiamo abbandonati e andiamo in crisi.

SMARTPHONE E TABLET IN FAMIGLIA E A SCUOLA

L’anno scolastico 2024-’25 è stato il primo con il divieto di uso degli smartphone a scuola primaria e secondaria di primo grado secondo una precisa indicazione del ministro Giuseppe Valditara. Ne ha scritto con estremo equilibrio la giornalista scientifica Elisabetta Tola sul magazine indipendente on line Valigia Blu in due articoli che vi consiglio di leggere con calma (“Smartphone sì, smartphone no e il ritorno ai diari cartacei. La relazione tra scuola italiana e digitalizzazione” e “Lo smartphone a scuola: esperienze innovative per formare cittadini digitali consapevoli”) e che qui vi sunteggio. Ma leggeteli con calma, valgono tutti i minuti necessari. E nei due articoli trovate citate tutte le fonti a cui Elisabetta Tola ha attinto.

Alcuni lavori scientifici hanno misurato la relazione tra l’uso di dispositivi digitali e la propensione allo sviluppo di obesità. Nulla di nuovo, il problema è noto da 30 e più anni… ma perché non si interviene? Maggiore sedentarietà, minore attività fisica. Anche minore attenzione a quello che si mangia, sia come qualità che come quantità, distratti da quello che passa sullo schermo. Stare ore davanti al pc, alla console o su un altro dispositivo mobile non può che contribuire a questa tendenza. Anche qui però il colpevole non è lo smartphone di per sé ma una corretta distribuzione del tempo del bambino/adolescente tra attività sedentarie e gioco o sport attivi.

Usare gli schermi (tablet, smartphone, serie tv in streaming da piattaforma, consolle di videogiochi on line e off line) per più di 2-3 ore al giorno porta inequivocabilmente ad alcuni elementi di rischio sulla salute fisica. Ci sono indicazioni abbastanza significative di un potenziale impatto dell’uso intensivo degli smartphone sullo sviluppo o sulla velocità di progressione della miopia e a problemi di vista in generale considerando l’illuminazione delle stanze in cui gli schermi vengono usati (giorno, notte, in presenza di luce esterna o meno). Attirati dagli schermi i bambini passano sempre meno tempo all’aperto e dunque esercitano sempre meno la vista a lungo raggio.

Ci sono correlazioni piuttosto significative anche tra l’uso eccessivo di schermi, soprattutto in fase serale, e lo sviluppo di disturbi del sonno, sia legati proprio all’emissione di luce degli schermi che, soprattutto per gli adolescenti, a una sorta di ansia da chat o da social media.

Se tutti concordano che stare sullo schermo continuativamente oltre le due ore al giorno può contribuire a sviluppare problemi di concentrazione (noi adulti compresi), nell’attenzione e anche nella cosiddetta quality of life, e dunque nella percezione di una vita soddisfacente da parte dei bambini e ragazzi stessi, ci sono però diverse indicazioni misurabili sia su impatti positivi e negativi. Per chi fa un uso ben gestito, idealmente in un contesto collettivo, sia educativo che sociale, ci sono una serie di inequivocabili vantaggi, come l’ampliamento del proprio linguaggio e la capacità di apprendere vocaboli e anche lingue diverse, o la possibilità di accedere ad archivi, fonti, materiali, informazioni, prodotti culturali anche molto vari. Nei bambini, un uso intelligente e ben guidato dello smartphone può migliorare i risultati sia in campo matematico che linguistico, dicono questi studi. Al contrario, un uso isolato e ossessivo, nel cosiddetto buio della propria cameretta, favorisce una riduzione della propria capacità interattiva e cognitiva.

C’è una considerazione molto interessante legata a due rapporti, uno dell’Unesco e uno dell’Ocse sugli effetti delle app progettate per l’ambito educativo (quasi sempre a pagamento) rispetto alle app dichiaratamente gratuite (tutti i principali social media). Quelle a finalità pedagogica, usate in modo appropriato, migliorano la consapevolezza e alla fine la qualità della vita. Quelle commerciali, oltre a esporre a contenuti inadatti o pericolosi, tendono a inebetire, omologare e manipolare i giovani cervelli, portano all’acquisto compulsivo (di fast fashion ad esempio), abbassano la capacità di critica e permettendo le diffusioni delle fake news. Ne nasce una nuova forma di digital divide, dove la disuguaglianza è tra chi ha accesso a tecnologie di alto livello e chi rimane vittima degli algoritmi, del marketing e degli influencer.

FORMARE CITTADINI DIGITALI CONSAPEVOLI

Nel secondo dossier ci sono una serie di considerazioni su percorsi di educazione alle tecnologie digitali (anche il sito di Save The Children offre parecchio materiale in proposito) e su come usare in modo costruttivo smartphone e tablet.

Il progetto “Open the box”, per esempio, mira a educare gli insegnanti all’uso consapevole della tecnologia, in particolare degli smartphone, nella didattica. Attraverso metodi come l’inquiry based learning, il progetto ha coinvolto oltre 8.000 docenti e 100.000 studenti, affrontando temi come la disinformazione e l’uso dell’intelligenza artificiale generativa, incoraggiando gli studenti a lavorare collaborativamente per risolvere problemi e sviluppare conoscenze originali.

Altre attività vanno focalizzate a contrastare la disinformazione per aiutare gli studenti a riconoscere il contenuto di un testo e combattere le fake news attraverso attività pratiche che utilizzano tablet e smartphone. Attività particolarmente utile in classi con studenti non italofoni o provenienti da situazioni di marginalità, facilitando l’integrazione e permettendo che a scuola si educhi a un uso consapevole piuttosto che escludere uno strumento di apprendimento comune.

Le tecnologie digitali possono, inoltre, contribuire a “colmare il divario tra scuole urbane e situazioni educative “minori” soggette a rischi di iniquità educativa”, come le scuole situate in contesti territoriali periferici, di montagna, delle isole e delle aree interne del paese. Non si tratta di zone minoritarie, ma più isolate culturalmente e geograficamente, con classi spesso meno numerose e meno connesse, rispetto alle realtà urbane.

In queste zone, Indire ha lavorato molto con il Movimento delle Piccole Scuole, che utilizza la tecnologia digitale come perno di una serie di attività educative che permettono apprendimento diffuso e facilitano la connessione di chi ha più difficoltà di accesso all’educazione e alle tante opportunità culturali che ci sono in zone più popolate. Puntando soprattutto sull’ampliamento delle opportunità educative, anche attraverso applicazioni e interfacce costruite ad hoc e utilizzabili sui dispositivi disponibili e meglio connessi, a seconda delle situazioni, magari organizzando classi in rete, per sostenere gli insegnanti nella progettazione e sviluppo di attività didattiche d’aula condivisa, in parte in presenza e in parte a distanza.

Al centro resta sempre e comunque il rapporto umano nell’ambiente formativo. Tutti gli studi comparativi dimostrano che la comunicazione faccia-a-faccia ha un impatto di tutt’altro livello, ben visibile nelle relazioni tra docenti e discenti e tra pari, studenti e studenti. Se è evidente che le tecnologie digitali possono consentire a chi è in una situazione di disagio, marginalizzata, o anche solo fisicamente distante, la partecipazione effettiva ai percorsi formativi, la scuola rimane un luogo di socialità umana e l’incontro e lo scambio tra persone uno degli ingredienti fondamentali dei percorsi formativi. Tutto questo può accadere solo aiutando gli insegnanti ad esser sempre più capaci e attrezzati per essere protagonisti, assieme ai propri studenti, di una arena formativa dove le tecnologie sono al servizio delle persone e non il contrario.

E anche il nostro progetto è un tassello in questo quadro d’insieme.